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Quando Pirandello rischiò di non ritirare il Nobel perché si perse nel palazzo

Qualche aneddoto e curiosità a 156 anni dalla nascita del grande drammaturgo e scrittore agrigentino

Luigi Pirandello alla Valle dei Templi di Agrigento

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento il 28 giugno 1867 e rimane tra i pochi giganti del teatro mondiale. La data mensile della morte, il dieci dicembre 1936, coincise con quella che, nel 1934, vide il siciliano sedersi definitivamente nel Pantheon dei grandi, il Premio Nobel. Ebbene, rischiò di non vederselo consegnare. Rischiò d’essere il grande assente. Accadde un fatto che avrebbe potuto far divenire pirandelliana una cronaca che, seppure emozionante, invece era ed è rigorosamente protocollare. Assente, ma non per sua scelta. E infatti, pur se Luigi Pirandello, diversamente da altri, anche italiani contemporanei, non aveva mosso un dito per ottenere il premio letterario più ambito e più ricco, egli, più abile a scriverla la vita che a viverla, letteralmente si perse nei meandri del maestoso palazzo di Stoccolma dove avveniva, come ancora oggi, la cerimonia di consegna dei Nobel.

Pirandello era stato accompagnato da un diplomatico italiano che, giunto all’ingresso destinato al pubblico, lo lasciò seguitare da solo verso l’altro ingresso, quello del palcoscenico, destinato ai premiandi. Lo scrittore siciliano era lì principalmente per un merito. Perché con l’Opera sua aveva sovvertito il piacere, la dinamica emotiva della letteratura, soprattutto di quella teatrale. Nel lettore e nello spettatore Pirandello aveva, senza artificiosità, sostituito le consuete emozioni dei sentimenti con le emozioni della ragione. Emozioni a loro modo, nel modo di Pirandello, esclusive. Vere inondazioni del ragionare sulla pelle di tutti. Un godimento nuovo che dalla mente scivola nel cuore e mischia l’una nell’altro. A mischiarsi, quel dieci dicembre ’34, per Pirandello furono i corridoi e le porte. Ne aprì, ne richiuse, riprovò. E più nessuno a cui chiedere. Nulla che lo portasse al palcoscenico.

Poi giunse finalmente un uomo, alto, distinto. «Dovrei essere premiato, ma mi sono perso», gli confessò Pirandello. «L’accompagno», gli rispose affabilmente quell’uomo e, dinanzi a una porta poco distante: «Ecco, è qui». «Le sono infinitamente grato», disse Pirandello aprendo la porta e con comprensibile riconoscenza aggiunse: «Prego, si accomodi». L’uomo sorrise e con voce soffiata gli disse: «Grazie, ma non posso. È la regola. Io devo entrare per ultimo e dopo di me nessuno. Sono il re di Svezia». Era Gustavo V. Così, dalle sue mani, Luigi Pirandello, assommando al merito un po’ di fortuna, poco dopo poté ricevere personalmente il Premio Nobel.

Beh, era stato obbligato a viverla la vita così come mille altre volte. Tutte quelle, cioè, che lo costrinsero, come ogni altro essere umano, a subirla. Aveva 24 anni Luigi Pirandello quando conseguì la laurea in Filologia romanza a Bonn. Era il 1891. Oltre alla discussione della tesi, l’esame allora prevedeva anche domande di così detta cultura generale. Il giovane agrigentino mostrò una evidente carenza: l’aritmetica. I professori se ne resero conto e preferirono ironizzare ponendogli come quesito un divertissement, questo: sommando due volte le dita di una mano, come ottenere undici e non dieci? Pirandello provò, riprovò. Scena muta. Il metodo c’è e non prevede forzature logiche, ma l’uso astuto del conteggio delle dita. La biografia da cui ho appreso questo aneddoto non dava la soluzione. Me la sono dovuta trovare da solo. È un esercizio a cui invito il lettore. Ora. È un modo per convivere quanto visse Pirandello in quella imbarazzante e impegnativa circostanza giovanile. E invito a provare ora poiché tra poche righe indicherò io il percorso da compiere per ottenere, sommando due volte le dita di una sola mano, undici e non dieci. Prima di concludere, però, una riflessione: che cosa sarebbe accaduto alle fortune letterarie di Pirandello se egli avesse vissuto ed operato nell’ultima parte del Novecento, ai tempi nostri? Egli, siciliano, nei suoi pochi romanzi e innumerevoli novelle e numerose opere teatrali, né parlò né citò mai la mafia. E dire che furono i suoi anche i tempi del prefetto Mori in Sicilia, cioè i tempi della durissima reprimenda mafiosa degli anni ‘20. E Pirandello? Nulla. E nessuno se ne scandalizzò, nessuno lo accusò di disimpegno o di colpevole negligenza. Ancora non erano maturati i professionisti dell’antimafia di categoria sciasciana.

Mantengo la promessa. Usando, come richiesto, una sola mano, sappiamo che, contandolo due volte, ogni dito ha il nome dell’andata e poi quello del ritorno. Chiarisco. Il pollice lo chiameremo inizialmente Uno e al ritorno lo chiameremo Sei e così via le altre dita, sino al mignolo che si chiamerà prima Cinque e poi Dieci. Bene, per soddisfare la richiesta degli esaminatori, il giovane Pirandello avrebbe dovuto iniziare dal mignolo con il suo secondo nome e andare a ritroso: dieci, nove, otto, sette, sei (cioè il pollice), più le cinque dita della stessa mano, undici. Sei più cinque undici. Forse anche questa mancata soluzione convinse Luigi Pirandello ad affermare che «il teatro vendica la vita». Forse. E di ragioni di «vendetta», avvalendosi dell’arma della creatività letteraria, egli ne ebbe tante. A noi il vantaggio di trarne frutto.

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