Due senegalesi, di 24 e 33 anni, sono stati sottoposti dalla Squadra Mobile a fermo di indiziato di delitto, disposto dalla Procura di Agrigento, perché ritenuti responsabili in concorso dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di morte come conseguenza di altro reato. Si tratta dei due presunti scafisti che erano alla guida del barchino sul quale, al largo di Lampedusa, lo scorso 21 ottobre, scoppiò l’incendio che provocò la morte di una bambina di 2 anni e un bimbo di poco meno di un anno. Le fiamme investirono anche altri 5 immigrati che vennero trasferiti, in elisoccorso, al Centro grandi ustioni di Palermo.
L’imbarcazione, a bordo della quale era scoppiato l’incendio, era stata segnalata in difficoltà - secondo quanto allora venne ricostruito dalla Guardia costiera - da un peschereccio tunisino «in area Sar maltese, in prossimità dei limiti dell’area Sar italiana». In accordo con le autorità maltesi, una motovedetta della Capitaneria raggiunse le coordinate fornite e soccorse 38 migranti, parte dei quali, fra cui i cadaveri dei due piccini, erano stati già recuperati dallo stesso peschereccio tunisino. Le salme dei due bimbi si trovano ancora nella camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana, adesso potranno essere dissequestrate.
Oltre ad una venticinquenne incinta e in condizioni disperate, ad un bimbo di 2 anni e ad un ragazzo con ustioni alle gambe che furono trasferiti quasi subito a Palermo, i medici del Poliambulatorio di Lampedusa fecero trasferire anche un altro uomo e una donna, ustionati, ma non in gravi condizioni. La Procura, con a capo il facente funzioni Salvatore Vella, aprì subito un fascicolo d’inchiesta di cui si è occupata, anche attraverso l’audizione dei sopravvissuti, la Squadra Mobile di Agrigento. I feriti ricoverati a Palermo sono stati invece sentiti dalla Mobile del capoluogo siciliano L’attività investigativa ha permesso di arrivare ai due presunti scafisti che sono stati fermati e, una volta, trasferiti ad Agrigento portati in carcere.
Il racconto dei superstiti
«Il viaggio è durato circa tre giorni. Dopo due giorni, intorno alle 3:30-4, mi sono svegliato, perché il motore si era fermato e la barca aveva preso fuoco, alimentato anche dalla benzina che era custodita in bidoni, che doveva esser utilizzata per il rifornimento. Per sfuggire alle fiamme, ci siamo buttati tutti in acqua, non so se qualcuno sia rimasto a bordo ed è stato investito dalle fiamme. Siamo rimasti in acqua fino al mattino, fino a quando si è avvicinato un peschereccio tunisino, che penso abbia dato l’allarme». E’ un diciannovenne, originario della Guinea - uno dei cinque superstiti testimoni - a ricostruire il tragico incendio sul barchino dove hanno perso la vita, morendo carbonizzati, i piccoli Alina e Mael. Testimonianze fondamentali per la Squadra Mobile della Questura e la Procura di Agrigento che hanno fatto scattare i fermi dei due senegalesi, ritenuti responsabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte come conseguenza di altro reato. “L’equipaggio del peschereccio racconta ancora il giovane - ha anche tratto in salvo alcuni di noi, che erano stati trascinati via dalla corrente, riportandoli poi sulla nostra barca dove nel frattempo, grazie all’intervento di alcuni ragazzi, le fiamme erano state spente con gettiti di acqua prelevata dal mare. Dopo un pò, è giunta un’imbarcazione penso della marina italiana a salvarci. Ricordo che quando sono risalito sulla barca due bambini, un maschietto e una femminuccia, erano morti bruciati e anche 4 adulti, due uomini e due donne, sono rimasti in acqua perché trascinati dalla corrente e sono annegati». Tutti i testimoni hanno riferito ai poliziotti che «il motore della barca durante il viaggio aveva avuto diversi problemi e più volte si era fermato e fatto ripartire. Ci siamo anche persi in mare e un senegalese - ha concluso il ragazzo - che si era alternato alla conduzione della barca durante la traversata, con un altro uomo anche lui senegalese, grazie all’uso del gps istallato sul suo telefono è riuscito a ritrovare la rotta».
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