Alla Procura di Agrigento si lavora per decifrare il messaggio dell’omicida di Palma di Montechiaro, ammesso che ci sia o ci possa essere un nesso fra il delitto e quello che ha detto ai carabinieri prima e ai magistrati poi Angelo Incardona, l’uomo incarcerato per avere prima sparato tre o 4 colpi ai propri genitori, ferendoli, e poi altri 11 o 12 colpi del caricatore all’imprenditore palmese Lillo Saito, ucciso senza che al momento si possa capire perché. Ma per risolvere il rebus occorre anche scavare sul passato criminale di Incardona, con precedenti per tentato omicidio e detenzione di armi, e sui suo eventuali legami con l'organizzazione mafiosa.
Ma cosa ha detto il 44enne Incardona ieri, poco dopo avere ucciso un uomo sparandogli almeno 11 colpi di pistola? «È una vecchia storia di mafia», la prima dichiarazione, al momento di costituirsi al Comando provinciale dei carabinieri, grazie ai buoni consigli della moglie, che l'ha persino accompagnato ad Agrigento. Poi, davanti al procuratore Luigi Patronaggio, ha tirato fuori la storia dei «paracchi», il nome affibbiato a un'organizzazione mafiosa di ridotte dimensioni esistente a Palma e in qualche altro comune della provincia agrigentina. Per capire chi siano bisogna leggere l'ordinanza di un'operazione effettuata nel gennaio dell'anno scorso. L’indagine si avvalse un anno fa delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Giuseppe Quaranta, Maurizio Di Gati e Franco Cacciatore che hanno ricostruito, in pagine e pagine di verbali, la specificità dei gruppi criminali che operano nei territori di Palma di Montechiaro e Favara. Secondo i tre collaboratori di giustizia, a Favara e a Palma di Montechiaro convivono piccoli gruppi criminali, nati originariamente per vincoli familiari o di mera amicizia, che operano in autonomia, cercando però di non pestare i piedi a nessuno, soprattutto a Cosa Nostra, che di questi mini-clan si serve all'occorrenza. Al processo contro questa organizzazione meno di un mese fa il pm ha chiesto tredici condanne, la più pesante delle quali per il presunto capo, Rosario Pace.
E cosa c'entra tutto questo con il delitto di ieri? Forse, proprio niente. Gli inquirenti comunque stanno provando a fare chiarezza. Qualche informazione utile potrebbe darla il padre dell'omicida, Giuseppe Incardona. La Procura di Agrigento da quasi quattro anni indaga su di lui per la sparatoria del 12 giugno del 2018, quando, dopo un litigio in un bar, Incardona sr. avrebbe inseguito con la sua auto per le strade del paese quella di Francesco Gueli, sparando contro la vettura, senza però colpire il rivale. Il quale, riuscito a sfuggire, avrebbe conservato l'auto danneggiata in garage e poi avrebbe cercato vendetta, sparando a sua volta e ferendo una terza persona, Leandro Onolfo. Di certo c'è che immediatamente dopo le sparatorie tanto Incardona sr. quanto Gueli vennero fermati dalla polizia. E che in questi giorni il pubblico ministero Chiara Bisso, per i fatti di 4 anni fa, ha chiesto il rinvio a giudizio di 8 imputati, tutti di Palma di Montechiaro. Oltre a Gueli, Incardona e Leandro Onolfo, il ferito, gli altri 5 sono Gianmarco Onolfo, 30 anni, Calogero Onolfo, 60 anni, Elisa Immacolata Conti, 25 anni, Gioacchino Ingiaimo, 50 anni, e Alessandro Gueli, 36 anni. Gli altri 5 imputati rispondono di favoreggiamento perché avrebbero mentito ai poliziotti per evitare l’arresto di Francesco Gueli. L'udienza preliminare comincerà il 20 aprile.
Ma il delitto di ieri resta sempre a un punto fermo. Per questo si scava anche sul passato dell'omicida. Che è tutt'altro che tranquillo. Già nel 1999, all'età di circa 21 anni, Angelo Incardona venne accusato di tentato omicidio. E sei anni dopo arrivò l'accusa di detenzione illegale di armi e munizioni, allorché carabinieri e polizia gli trovarono sotto il piatto della doccia un nascondiglio per una pistola calibro 38 special e 120 proiettili. Precedenti che però non spiegano ancora perché mai Incardona ieri pomeriggio abbia prima sparato ai suoi genitori e poi a Lillo Saito, uccidendolo nella sua autovettura.
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