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Con i suoi scatti raccontò la mafiosità siciliana: mostra sul fotografo di Sciacca Cascio

Descrisse l'Italia del boom e fu famoso per un reportage sul delitto d'onore. Lavorava per il Mondo. Morì nel 2015. Per la prima volta un'esposizione dedicata a lui

Le raccoglitrici di olive: una foto scattata in Calabria negli anni Cinquanta da Calogero Cascio, qui in un'esposizione del passato

La Sicilia sul finire degli Cinquanta con la vita delle persone e la mafia della tradizione, l’Italia agli albori del «boom» tra i primi segnali di voglia delle donne di emanciparsi, le periferie di Roma, il lavoro e lo sfruttamento dei minori, e poi il Vietnam della guerra, l’India delle caste e della povertà, i contadini del Perù, il Brasile e il Sud America. Un mosaico di contrasti e contraddizioni, volti e scene che costringono alla riflessione, un narrare militante che unisce la denuncia sociale alla sensibilità verso una condizione umana universale, senza distinzioni geografiche. È il mondo amaro ma ricco di fascino documentato, spesso con taglio ironico, dall’occhio di Calogero Cascio, tra i maestri della fotografia del dopoguerra, eppure sconosciuto non solo dal grande pubblico italiano, sul quale finalmente concentra l'attenzione fino al 9 gennaio prossimo il Museo in Trastevere con la mostra «Pictures stories, 1956-1971». Per questa prima - incredibile a dirsi - rassegna antologica dedicata all’artista siciliano la curatrice Monica Maffioli ha selezionato più di cento stampe da fotografie d’epoca e stampe recenti dai negativi originali scegliendole dall’archivio di famiglia affidato ai figli Natalia e Diego Cascio e La Biblioteca Nazionale di Firenze, che raccoglie l’archivio della celebre rivista «Il Mondo» di Mario Pannunzio, dove il fotoreporter lavorò fino alla fine delle pubblicazioni.

Ne esce un racconto di anni cruciali per la storia italiana fatto di istanti in bianco e nero che descrivono abitudini e costumi nazionali, dalla prima tv su un trespolo per un gruppo di avventori di un bar alla sposa in abito bianco dentro la mitica Fiat 600, simbolo pop del miracolo economico, alle tre anziane in nero di una sezione del Pci di Velletri (Roma) sotto il cartello «W Udi, che rivendica la pensione per le donne casalinghe».

Ma seppe anche creare scandalo quando nel 1966 dedicò un reportage al delitto d’onore, argomento tabù per quegli anni, e un interprete straordinario della Sicilia dell’epoca, il primo a documentare - osserva la curatrice - la «mafiosità» degli sguardi e degli atteggiamenti, come nel funerale del padrino o i due uomini con la lupara su un carretto. A tutto questo fa da contraltare lo sguardo sui drammi della guerra e alle persone in difficoltà documentati nei suoi continui viaggi all’estero.

Calogero Cascio, che era nato a Sciacca nel 1927, nel 1949 aveva scelto Roma (dove è morto nel 2015) e dopo la laurea in medicina aveva cominciato ad esercitare nelle borgate. Nel 1956 scoprì da autodidatta la passione per la fotografia e cominciò a collaborare, appunto, con Il Mondo e con l’Espresso. Con i colleghi Caio Garrubba e i fratelli Antonio e Nicola Sansone - accomunati dall’idea del «reportage giornalistico come azione politica» - fondò l’Agenzia RealPhoto, espressione con il lavoro di altri professionisti della «scuola romana» di fotogiornalismo.

«È la prima mostra in assoluto su Calogero Cascio - spiega Monica Maffioli - molto conosciuto all’estero nei dieci anni e poco più in cui ha lavorato. Produsse però tantissimo con la capacità di leggere la realtà in modo letterario e giornalistico. Non cercava la notizia, era un fotoreporter intellettuale, politico, di denuncia, come molti free lance dell’epoca. Fece i suoi grandi reportage per scoprire e vedere da vicino l’umanità universale delle persone, le loro emozioni e difficoltà». All’inizio degli anni Settanta, riflettendo anche sulle difficoltà attraversate dai giornali, Cascio lasciò la fotografia e si dedicò all’editoria. «Life sta finendo, Look è finito, Paris Match è in crisi, i giornali sono senza una lira - spiegò -. Per questo anch’io viaggio meno ma senza rimpianti perché, in fondo, le cose grosse della mia vita le ho viste».

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