Agrigento

Venerdì 22 Novembre 2024

Pirandello, il fascismo, Mussolini: quel braccio di ferro coi detrattori

Il 10 giugno 1924, col sequestro e l’omicidio di Giacomo Matteotti a opera della sua polizia segreta, il fascismo mostra il suo volto feroce. Il clima è rovente e sono in tanti ad attribuire a Benito Mussolini la responsabilità del delitto. Il 12 settembre viene colpito a morte il deputato fascista Armando Casalini: a sparargli è un militante comunista che vuole vendicare l’uccisione del leader dell’opposizione. Sette giorni dopo sul quotidiano L’impero è pubblicata una lettera in cui Luigi Pirandello chiede l’iscrizione al Partito Fascista. Vi si legge: «Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e devoto gregario». L’E.V. naturalmente è Mussolini che, quasi un anno prima, il 22 ottobre 1923, l’aveva ricevuto a Palazzo Chigi e verso il quale il drammaturgo agrigentino prova simpatia tanto da elogiarlo, qualche giorno dopo, in un corsivo su L’Idea Nazionale: «Non può non essere benedetto Mussolini […] che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma accolga pulsante e fremente la vita». Pirandello, già attratto dal fascismo, decide di aderirvi apertamente nel suo momento più difficile. Per quale motivo? Per calcolo (il suo appoggio sarebbe stato poi ricambiato?), per un moto d’anticonformismo dettato dal coraggio (o imprudenza?) di fare ciò che agli altri appare inopportuno? Difficile leggere dentro un uomo complicatissimo e pieno di contraddizioni come Pirandello. Ciò che fa più clamore non è però il suo schierarsi a fianco del duce ma l’attacco agli oppositori del fascismo che, a suo avviso, non meritano di essere presi in considerazione. Il che, enfatizzato dai commenti su l’Impero del suo amico e conterraneo Telesio Interlandi, indigna gli antifascisti. Veemente è la reazione di Giovanni Amendola, da Pirandello definito «un mediocre politicante», che sulle pagine de Il Mondo contraccambia qualificandolo come «un uomo volgare». Amendola accusa Pirandello di volere distogliere l’attenzione dalla sua mancata nomina a senatore, caldeggiata in un articolo dell’Impero a suo dire ispirato dallo scrittore siciliano. Un’ipotesi «curiosa» secondo Gaspare Giudice, il più attento dei biografi di Pirandello, che pare non ambisse a quell’incarico. Ma a formularla non è soltanto Amendola, anche il foglio satirico Il becco giallo la fa propria: battezza sprezzantemente lo scrittore P. Randello e ne disegna la caricatura mentre sfila in un corteo con altri illustri questuanti (Giacomo Puccini, Ruggero Leoncavallo tra di essi) dinanzi le finestre del senato. Velenoso il corsivo di Amendola e strenua la sua difesa del ruolo dell’opposizione: «No, caro personaggio che ha trovato il suo autore [Mussolini]! Noi siamo di quelli che fabbricano i giornali, non di quelli – come voi – che sono fabbricati dai giornali. E restate pure con la coscienza tranquilla: il vostro Duce e il vostro fascismo non ci hanno creato in alcun modo, perché anzi ci vorrebbero distrutti assai volentieri». L’articolo di Amendola non passa inosservato; un nutrito gruppo di intellettuali e artisti – tra i quali Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Ottorino Respighi, Ugo Ojetti – solidarizza con Pirandello e scrive una lettera a sua difesa. Pirandello su L’Impero del 3 ottobre li ringrazia e precisa: «Chi mi conosce sa bene che io non sono “un uomo volgare”. Chi non mi conosce, poteva facilmente considerare che sarei stato, più che un uomo volgare, un uomo inverosimilmente stupido, se per la vanità di vedermi inserito nella lista dei nuovi senatori, proprio alla vigilia fossi andato a iscrivermi al Partito Nazionale Fascista». Da allora i rapporti tra Pirandello e Mussolini, col quale s’incontrerà più volte chiedendo e solo in parte ottenendo sostegno per le sue iniziative, s’intensificheranno con alti e bassi. Per Giudice vanno distinte due fasi: fino al 1926 la sua adesione è convinta, dopo è segnata da tentennamenti e opportunismi. Per Elio Providenti, autore dell’interessante saggio «Pirandello impolitico» (Salerno editrice, 2000), l’agrigentino, digiuno di politica e vagamente legato a ideali anacronistici, s’illude di trovare nel fascismo il compimento del Risorgimento, e l’intervista rilasciata a Giuseppe Villaroel l’8 maggio 1924 per il Giornale d’Italia confermerebbe la sua tesi: «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto». Di certo nella sua opera, malgrado talune sue affermazioni, non vi è alcun riflesso dell’ideologia fascista. Tra i firmatari nel 1925 del manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile e nominato nel 1929 accademico d’Italia, Pirandello non è stato tuttavia un fascista esemplare. A parte il suo testamento che escluse il solenne funerale, alcune sue uscite fuori le riga e alcuni interventi e scritti gli provocarono diffidenze contrasti con i gerarchi del regime. Così la commemorazione di Giovanni Verga nel 1931, che è uno schiaffo alla retorica e mette in imbarazzo l’Accademia d’Italia, il libretto d’opera «La favola del figlio cambiato» messo al bando dalla Germania nazionalsocialista, l’incompiuto «I giganti della montagna» nel quale c’è chi intravede un velato distacco dal fascismo, la novella «C’è qualcuno che ride» che per Corrado Alvaro e Leonardo Sciascia prende di mira il ridicolo del regime. Infine, in uno dei suoi ultimi colloqui con Mussolini, il duce gli rimprovera la relazione platonica con Marta Abba: «Quando si ama una donna non si fanno tante storie, la si butta su un divano», gli avrebbe detto. E Pirandello, tornato a casa, avrebbe commentato: «Mussolini è un uomo volgare». Guarda caso, la stessa espressione a cui aveva fatto ricorso Amendola in risposta alla sua adesione al fascismo e ai suoi strali contro chi l’avversava.

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