"Mio padre aveva tante civette, in casa le consideravamo il nostro portafortuna”. E te lo immagini, Leonardo Sciascia chino sul tavolinetto della Noce, nella stanza con due letti gemelli in cui dormivano Laura e Anna Maria: scriveva e scriveva, solo la mattina fino alle 11, poi pranzava e riposava.
“Durante il suo sonno pomeridiano, io e Laura correvamo a leggere quello che aveva scritto, perché i fogli restavano sul tavolino: non c’era mai una cancellatura” ricorda Anna Maria Sciascia che ora scorre le foto che compongono la mostra che la Fondazione intitolata allo scrittore, dedica a uno dei film più controversi e, forse, più odiati da Leonardo Sciascia. Che non accettò mai la formula del mafia-movie di Damiano Damiani, che “sporcava” il romanzo.
Ma la bellezza di quel set artigianale (che per i tempi doveva essere un’operazione da major), la stupenda carnosità di Claudia Cardinale, è intonsa, complice un bianco e nero che sembra trasudare eleganza: sono le foto – oltre 120 – che Enrico Appetito (conservate con affetto dalla figlia Tiziana) scattò durante le riprese nella piazza di Partinico, 53 anni fa. L’allestimento è veramente immersivo: le gigantografie invadono Racalmuto, non solo i locali della Fondazione e le strade del paese, ma anche i palchi del Teatro Regina Margherita, da cui paiono affacciarsi Franco Nero e la Cardinale, Lee Cobb e Tano Cimarosa.
Sono anni complicati, il film di Damiano Damiani guadagnerà quattro David, ma uscirà nelle sale vietato ai minori. Censura reale o avvertimento dietro le quinte? Non si saprà mai, fatto sta che Sciascia non dimostrò mai amore sconsiderato per il film, quanto invece apprezzò la trasposizione teatrale dello Stabile di Catania: un vero atto di coraggio per un romanzo che veniva tenuto a distanza con la pertica, difficile come pensiero, facilissimo nel linguaggio; uno stravolgimento della letteratura infiocchettata del periodo.
“Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960 – scrisse Sciascia - . Allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno mafioso, ma esplicitamente lo negava”. “Ricordo la messinscena a Catania come un momento magico della vita della mia famiglia – dice Anna Maria Sciascia – Mio padre finì di scrivere il romanzo nel 1960 e tre anni dopo lo chiamò Mario Giusti: volevano mettere in scena Il giorno della civetta, e volevano che lui ne curasse la riduzione con Giancarlo Sbragia. In scena ci sarebbe stato Turi Ferro. Pensi, per la prima ci comprammo dei vestiti apposta, partì tutta la famiglia, da Caltanissetta a Catania fu un viaggio. Quando l’altoparlante annunciò il nome di mio padre, e la sala si zittì, mi scesero le lacrime. Poi ascoltavo la gente attorno, sussurravano commenti, quando c’erano le scene più febbrili, il politico che parlava al capomafia, si sentivano frasi smozzicate. Poi l’applauso lunghissimo del finale, e Pietro Carriglio che urlò, “fuori l’autore” e mio padre che si nascose …”.
Il romanzo nacque nella casetta della Noce. “Era piccina, oggi è un rudere, non c’erano acqua, luce o telefono. Ma era la nostra casa, la ritrovammo poi nel romanzo, anche il cane era quello dei nostri vicini, il barrugeddru”. Sciascia era un buono, parola di figlia. “Era di bocca buona – ride Anna Maria –, schivo, non avrebbe mai fatto un commento di troppo, ma del film non lo sentii mai parlare. Mio padre non correggeva mai nessuno, mi sono sempre chiesta perché, un amante del cinema come lui era, non aveva mai avuto voglia di andare sul set. Amava vivere come l’impiegato del catasto. Lei ride? Eppure era così, ci ha cresciuto libere, felici; con una massima, “mai fare l’errore grave di proiettare sui figli le ambizioni irrisolte dei padri”.
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