CANICATTI'. La «Casa di famiglia del giudice Rosario Livatino» dal punto di vista architettonico rappresenta un esempio di costruzione della fine dell'Ottocento che ha mantenuto inalterato l'impianto strutturale, la distribuzione spaziale e finiture: l'arredamento e le suppellettili di gusto Liberty ci restituiscono l'immagine di una residenza della borghesia siciliana della prima metà del secolo scorso. La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi ed artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione dei valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" ed "Amici del giudice Rosario Livatino" di Canicattì, nonché di "Libera" ed "Arci"". E' questo ciò che ha scritto la Sovrintendenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento. Perché a volere il vincolo di interesse culturale per la storica dimora del giudice Rosario Livatino è stata proprio la Sovrintendenza. E non è stato altro che il primo passo verso la creazione di una "casa museo". «L'immobile denominato "Casa di famiglia del giudice Rosario Livatino", in viale Regina Margherita 166 a Canicattì, ed i beni mobili in esso custoditi - ha scritto ufficialmente il sovrintendente Gabriella Costantino - sono stati dichiarati di straordinario interesse culturale ai sensi dell'articolo 10, comma 3, del decreto legislativo del 22 gennaio 2004, numero 42, Codice dei beni culturali e paesaggistici e con Ddg 2589 del 9 settembre del 2015 confermato dalla sentenza della prima sezione del Tar Sicilia. La casa di famiglia del giudice Rosario Livatino rappresenta un perfetto connubio tra valenza architettonica e preziosa memoria storica e di avvenimenti socio politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e la sua provincia. L'auspicio è quello che la dimora possa, al più presto, essere adibita a "Casa museo" come luogo di vita spesa con coraggio e determinazione a baluardo di legalità e giustizia da consegnare alle generazioni future». A fine dello scorso mese, il tribunale amministrativo regionale della Sicilia aveva rigettato il ricorso presentato dalla proprietaria contro il decreto del dirigente generale per sottoporre a vincolo l'immobile denominato "Casa di famiglia del giudice Rosario Livatino". Il decreto era stato adottato il 9 settembre del 2015 e notificato alla proprietaria il 3 novembre, dopo che la Sovrintendenza aveva compiuto l'istruttoria e la valutazione non solo della casa di viale Regina Margherita, ma soprattutto del suo prezioso contenuto in gran parte appartenuto al giudice Livatino che è stato ucciso a soli 37 anni il 21 settembre del 1990 in un agguato mafioso. Secondo un recente indirizzo, anche del Governo Siciliano, i beni culturali possono essere costituii anche da beni immateriali altamente significativi e simbolici che testimoniano un preciso momento storico-culturale ed etnoantropologico. "Casa Livatino" questi requisiti li ha tutti, per l'importanza e la notorietà del "giudice ragazzino". All'interno delle tre stanze "di rappresentanza" tutto sembra essersi fermato a quella tragica mattina. Gli anziani genitori - mamma Rosalia Corbo e papà Vincenzo - non vollero infatti cambiare nulla, dal momento dell'atroce delitto, nelle stanze dove si svolgeva, con riservatezza e discrezione, la vita pubblica e privata del loro unico figlio. Casa Livatino è stata meta - e continuerà ad esserlo - di alti rappresentanti della magistratura, delle forze dell'ordine, della Chiesa e del volontariato. A visitarla, ad esempio, i ragazzi di "Libera", dell'Arci e dell'Azione cattolica provenienti da ogni parte della penisola che sono stati impegnati nei "campi di lavoro" sui terreni confiscati alla mafia. Perché all'interno di quella abitazione riecheggia la memoria e la "voce" del giudice Livatino. Il giudice Rosario Livatino venne ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena lungo la statale 640, la Agrigento-Caltanissetta, mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in tribunale. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida ed i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all'ergastolo con pene ridotte per i "collaboranti". Ergastoli sono stati inflitti agli esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato, Gianmarco Avarello ed ai mandanti Antonio Gallea e Salvatore Parla. Tredici anni sono inflitti a Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, entrambi collaboratori di giustizia. Dopo quell'atroce delitto, l'Italia scoprì il sacrificio del giudice, l'eroismo di un servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo. Il giudice Rosario Livatino venne definito, da papa Giovanni Paolo II, «martire della giustizia ed indirettamente della fede». Nel 1993, l'allora vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro, incaricò Ida Abate che del giudice fu insegnante di raccogliere le testimonianze per la causa di beatificazione. Il 19 luglio del 2011 è stato firmato dall'arcivescovo Francesco Montenegro il decreto per l'avvio del processo diocesano di beatificazione che è stato ufficialmente aperto - nella chiesa di San Domenico di Canicattì - il 21 settembre del 2011. «Lo spirito di Rosario Livatino – ha già raccontato don Giuseppe Livatino, il postulatore della causa di beatificazione – si è presentato in due casi di esorcismo. In uno dei due non era stato nemmeno invocato». Gli esorcismi, come ha raccontato don Livatino, sono avvenuti in Sicilia: a Messina e a Lentini. "Lo spirito di Livatino è stato evocato con il nome di Angelo che è il secondo nome del giudice".