Agrigento

Venerdì 22 Novembre 2024

I migranti sopravvissuti ai naufragi di 9 anni fa: "Grazie Lampedusa"

Un delegazione dei migranti sopravvissuti ai naufragi ieri a Lampedusa
Randa, Sherihan, Nurhan, Christina. Tatuati sull’avambraccio sinistro, con dei cuoricini
 
 
 

Randa, Sherihan, Nurhan, Christina. Tatuati sull’avambraccio sinistro, con dei cuoricini all’inizio e alla fine, ha i nomi delle figlie, di 10, 8, 5 e mezzo e quasi 2 anni. Bambine i cui corpi, dopo il naufragio dell’11 ottobre 2013, non sono stati mai trovati. Ha lo sguardo fisso sull’ingresso dell’istituto Pirandello di Lampedusa - dove è un via vai di studenti europei e dove è stata portata la testimonianza dei sopravvissuti dei naufragi del 3 e 11 ottobre di 9 anni fa e dei familiari delle vittime - e non apre bocca, quasi fosse ancora sotto choc. «Ogni istante di quel viaggio è scolpito nella nostra memoria, per due anni ci siamo svegliati ogni notte chiamando il nome delle nostre figlie che sono disperse - ha raccontato il marito: Wahid Yussed, siriano sessantunenne, già direttore del reparto di Pneumologia in un ospedale della Libia -. La situazione è un pò migliorata grazie a Dio che ci ha donato altre due figlie, ma abbiamo avuto bisogno di grande supporto psicologico perché pensavamo che la vita fosse finita dopo quel giorno». La coppia vive a Dussemburg in Germania dove il medico studia il tedesco e spera di poter tornare in reparto. Dopo il naufragio sono stati, per 7 anni, come rifugiati politici, in Svizzera. Da 2 anni sono invece in Germania. «Mi sento in colpa. Perché io sono sopravvissuto e loro, le mie bambine, no. Perché?» - continua a chiedersi il medico siriano che, per la prima volta, dopo la tragedia, è tornato a Lampedusa e sarà presente anche domattina alla marcia della “Giornata della memoria e dell’accoglienza» che da piazza Castello arriverà fino a Porta d’Europa. A raccontare la sua storia agli studenti anche Solom, eritreo, di 32 anni, sopravvissuto del naufragio del 3 ottobre, che da qualche tempo vive in Svezia: «Ogni anno torno a Lampedusa e vado anche al cimitero di Agrigento a portare dei fiori ai miei amici. Ero partito con loro, avevano tutti 22 e 23 anni. Sono l’unico che si è salvato». Solom, in Svezia, fa l’autista di camion, si è sposato con una connazionale e ha un bambino di un anno e due mesi. «Devo la mia vita a Vito Fiorino, ’My father’, è lui che mi ha salvato - spiega - . Sono scappato dal mio Paese, l’Eritrea, e, con i miei amici, ho attraversato l’Etiopia, il Sudan, il deserto del Sahara fino in Libia. Siamo stati rapiti e mi hanno chiesto 5 mila dollari per essere liberato. Grazie a Dio, mio fratello ha pagato il riscatto e sono partito dalla Libia. In Svezia, all’inizio, è stato difficile, ma poi ho capito il sistema e se ti impegni e trovi un lavoro, la vita è molto bella». Solom chiede a tutti gli africani in fuga dal paese di origine di non prendere i barconi e di provare ad arrivare in maniera legale: «Vivere in patria è difficile, si può morire. Ma si può morire anche sui barconi. Dopo quello che ho vissuto chiedo a tutti di non dare soldi per il viaggio con i barconi, andate in Sudan o in Etiopia e attendete che la situazione migliori». A Lampedusa c’è anche Fanus, aveva 16 anni il 3 ottobre del 2013 ed è stata l’unica a riconoscere lo scafista e a denunciarlo. E’ rimasta 3 mesi, allora, all’interno dell’hotspot. Ancora adesso si chiede come ha fatto a sopravvivere al naufragio, visto che non sa nuotare. Adesso vive in Svezia e ha 3 figli. E poi c’è Adal: è stato il primo, il 3 ottobre del 2013, ad arrivare, da naufrago, a Lampedusa e a ricostruire tutti i nomi delle vittime. Ha perso suo fratello nella tragedia che determinò 368 vittime. Ma anche Abel che è ancora minorenne ed è timidissimo. Nel naufragio ha perso il padre e non riesce, ancora oggi, a superare il trauma. Gli studenti hanno ascoltato anche le testimonianze dei lampedusani che, in quella notte d’inferno, si mobilitarono. «Ho ancora davanti agli occhi quello scenario terrificante, almeno 200 persone che mi guardavano, urlavano e volevano essere aiutate - ha raccontato Vito Fiorino - . Ho pensato 4 o 5 li devo salvare. Ho iniziato a portare a bordo questi ragazzi, arrivavano nudi, erano sporchi di petrolio e mi scivolavano dalle mani. Mi dissero che erano circa 500 su quella barca e che verso mezzanotte, una grossa imbarcazione si era avvicinata, li aveva illuminati e se ne era andata. Per indifferenza quella notte, 368 persone, sono morte. Fra i giovani che ho soccorso con la ‘Gamar’ (il nome della barca di Fiorino, ndr) ce n’era uno completamente nudo che appena è stato issato a bordo mi ha chiesto dei pantaloni. Quel ragazzo era Solom che, quella notte mi ha insegnato la mia prima parola di inglese: ‘My father’». A parlare anche Costantino Baratta, il pescatore che salvò 13 ragazzi: «Il mare, davanti alla barca, era pieno di cesti di capelli e di occhi fuori dalle orbite. Tutti urlavano: ‘Help me, help mè. Casa mia, nei mesi successivi, si è trasformata in un internet-point perché tutti i ragazzi soccorsi facevano avanti e indietro per usare il pc e provare a rintracciare i propri familiari. Uno dei ‘mieì ragazzi solo dopo 2 anni è riuscito a mettersi in contatto con il fratello in Inghilterra. Adesso, con tutti loro, siamo sempre in contatto. Siamo una famiglia allargata, una famiglia internazionale».

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