Il magistrato di Canicattì annunciò con oltre un anno di anticipo che la sua nomina a presidente della terza sezione penale di Palermo poteva essere letale. Chiese una nuova nomina ma la sua richiesta non venne ascoltata e anzi respinta. Lo scrive Asud'europa, la rivista del Centro Pio La Torre, che pubblica le lettere inviate da Saetta per spiegare i motivi dei suoi timori.
Era il giugno del 1987 quando il magistrato di Canicattì scrisse all'allora presidente della Corte di Appello di Palermo Pasquale Giardina chiedendo una diversa assegnazione, un anno e tre mesi dopo fu ucciso, assieme al figlio Stefano, sull'allora scorrimento veloce Canicattì-Caltanissetta, mentre si stava recando a Palermo.
Non era paura quella di Saetta, ma soltanto la consapevolezza che quel nuovo incarico lo avrebbe messo, come poi è stato, in forte evidenza e quindi in pericolo.
Sono due le lettere che Saetta scrisse al presidente della Corte di Appello di Palermo, la prima viene protocollata il 6 giugno 1987 e respinta, la seconda pochi giorni dopo. Il 6 luglio la nomina viene confermata al consiglio giudiziario presso la Corte di Appello di Palermo e Saetta si rassegna al sacrificio. Il 14 ottobre del 1987 il Consiglio Superiore della Magistratura ratifica l'atto e Quasi undici mesi dopo Saetta viene ucciso. Era la sera del 25 settembre del 1988.
Antonino Saetta da presidente della I^ sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo si occupò di importanti processi di mafia, in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza che aveva condannato all'ergastolo gli imputati, Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano. Stava facendo ritorno a Palermo, dopo aver trascorso il fine settimana a Canicattì ed avere assistito al battesimo di un nipotino. Era domenica e viaggiava con il figlio sulla scorrimento veloce che da Canicattì va a Caltanissetta sulla sua Lancia Prisma. I killer entrarono in azione all'altezza del viadotto Giulfo affiancarono l'auto del giudice. Erano con una Bmw e spararono con due mitragliette calibro 9 parabellum; l'auto del giudice sbandò, andando a sbattere contro il guard rail, mentre i killer scesero dalla Bmw e continuarono a crivellare di colpi le due vittime, fino ad ucciderle: in totale furono sparati 47 colpi.
Nel 1996 sono stati condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Caltanissetta i capimafia Salvatore Riina e Francesco Madonia come mandanti, e il killer Pietro Ribisi come esecutore materiale; gli altri due esecutori, Michele Montagna e Nicola Brancato, e il basista dell'agguato, il boss di Canicattì Giuseppe Di Caro, non sono più processabili perché tutti morti. L'assassinio era un "favore" delle cosche agrigentine ai capimafia palermitani Riina e Madonia.
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