FAVARA. Ogni storia ha il suo passato, ogni città ha le sue tradizioni. A Favara la vera storia della stirpe dei linticchieddri ha ancora un suo fascino, che non vuole sapere di sparire. Negli ultimi anni sono stati anche scritti dei libri sulle varie discendenze, con delle ricostruzione certosine e fatte molto bene, ma che hanno sempre tenuto una sorta di mistero sulla vera storia. Originariamente concentravano la provenienza di questa etnia nella regiore di Ohrid, in Macedonia, a confine con l’Albania. Sembra che alcune famiglie della zona per sfuggire alle persecuzioni turche, si spinsero oltre l’Adriatico, stabilendosi nel territorio calabrese, nei pressi di Vibo Valentia e più precisamente negli attuali Comuni di Ionadi e Nao. Queste famiglie che vivevano essenzialmente di pastorizia, anche se non disdegnavano certe attività illecite e ladresche a discapito degli autoctoni, successivamente furono costrette ad abbandonare il territorio, su sollecitazione degli abitanti che mal tolleravano i loro costumi e i loro arrangiamenti.
Così intorno al 1548-1550 giunsero con le loro modernissime attrezzature di viaggio nella costa agrigentina, distribuendosi lungo le aree geografiche di Eraclea Minoa, Siculiana e Realmonte. Queste pseudo-famiglie non erano così numerose, basta pensare che l’intero gruppo di emigranti era formato complessivamente da 35 individui: 12 donne, 8 anziani e 15 maschi già in età adulta. Mancavano solo i bambini, ma quello non era assolutamente un problema; infatti i nostri nomadi non dimostrarono alcuna titubanza nell’adattarsi al nuovo luogo e nel popolarlo di nuove creature. Questa etnia perseverò ostinatamente nelle solite attività di arrangiamento poco gradite alle popolazioni del luogo, le quali reagirono isolandola ai margini della società.In seguito, intorno al 1572 si stabilirono definitivamente nelle grotte di S. Rocco, a circa 700 metri dal casale di Favara e dal castello di Chiaramonte. Circoscritti all’interno di tali grotte, conducevano un’esistenza ancora tribale, regolata da proprie norme e consuetudini, spesso aliene ad ogni logica di legalità. Si racconta che una sera, saccheggiando i magazzini del castello, adibiti a depositi di cereali, riuscirono con grande astuzia e maestria ad impadronirsi di decine e decine di sacchi di lenticchie. Dal momento che i sacchi furono ritrovati nelle grotte di S. Rocco, tutte le accuse caddero sui nuovi arrivati, i quali ricevettero dispregiativamente l’attributo di linticchieddi.
Fermo restando che la storia si ricostruisce principalmente attraverso i manoscritti e negli archivi, lo scrivente ha voluto dare una svolta sull’identità di questa presunta etnia, partendo da un dato base inconfutabile: dalla famiglia Stagno, ovvero, quella famiglia di cui, è risaputo, fanno parte alcuni di questi benedetti linticchieddi, i cui caratteri somatici sono riconducibili a quelli irlandesi e che nell'albero genealogico rappresenta il portainnesti. Dopo avere individuato qualche recente cellula familiare, attraverso gli Atti parrocchiali e i Riveli dei beni e delle anime degli Archivi di Stato di Agrigento e di Palermo ho ricomposto l’albero genealogico, via via, fino ad arrivare al capostipite, alla sua provenienza, ma anche ai luoghi di abitazione delle varie famiglie, ai possedimenti ed ai figli procreati.
Anche se i mestieri svolti dagli Stagno a Favara, sin dall'arrivo, sono stati fra i più umili (contadino e zolfataio), non va dimenticato che questi erano quelli più comuni. Non va tralasciato il fatto che nel 1607 il primo nucleo della famiglia Stagno abitava in quattro case terrane e possedeva dei terreni. Una famiglia modesta viveva solitamente in un corpo terrano di case: u catoju, secondo l'antico dialetto favarese, che indicava una stanza terrana o interrata, Nella prima metà del 1700 iniziava il decadimento. Giovanni Stagno (n. 1716) figlio di Francesco e Angela D'Anna, nei Riveli del 1748 si dichiarava povero. Detto decadimento si accentuava nel corso del XIX secolo e si acuiva nel XX, con ripercussioni di carattere sociale sia per il portainnesti (Stagno) che per le varie componenti che vi sono confluite. Queste riecheggiamenti, legati spesso a un basso, in certi casi inesistente, livello di istruzione, associato ad un lavoro precario e/o inesistente, ha relegato diversi componenti e nuclei familiari ad una sorta di emarginazione o, per meglio dire, ghettizzazione sociale e ambientale. Il divario venutosi a creare con la fascia sociale media della comunità favarese ha relegato questi nuclei familiari in luoghi del centro storico in stato di parziale o totale abbandono, in aree urbanizzate e abitazioni caratterizzate da situazioni evidenti di degrado fisico e ambientale. L'epiteto linticchieddru è verosimilmente attribuibile (come raccontato da un componente Stagno) ad un fatto avvenuto nella prima metà del 1900, allorquando uno dei figli di Giuseppe Stagno (di Gaspare e Rosalia Costa) e di Antonia Miceli, bassi di statura, durante un litigio estrasse un coltello. In quella occasione uno della parte avversa lo etichettò linticchieddru.
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