Il fiocco con cui sono stati legati alla sedia i polsi della vittima, anziché il nodo, indirizzarono subito gli inquirenti su una donna. Le confidenze fatte ad un amico, le intercettazioni in carcere, dove finì per un’altra vicenda, insieme all’analisi delle celle telefoniche che hanno ricostruito il percorso e, infine, il ritrovamento dell’auto della vittima, che doveva essere fatta sparire da un ricettatore che, invece, decise di tenerla, hanno fatto il resto: il pubblico ministero Cecilia Baravelli non ha dubbi. La pena richiesta, quindi, è quella massima: ergastolo con tre mesi di isolamento. È stata la rumena Dana Mihaela Nicoleta Chita, 26 anni, fermata il 20 novembre del 2020, secondo il pm, a uccidere, la notte tra l’11 e il 12 luglio dello stesso anno, l’ottantanovenne Michelangelo Marchese. L’anziano non solo l’aveva ingaggiata come badante, ma le aveva promesso che l’avrebbe sposata, lasciandole l’eredità. «È stato un omicidio brutale - ha sottolineato il pm -, non si è fatta scrupolo di ucciderlo per rapinarlo dei pochi spiccioli che teneva in casa e sottrargli una vecchia utilitaria». Tutti gli elementi raccolti nelle indagini e poi nel dibattimento, secondo quanto sostiene il magistrato che rappresenta l’accusa, portano nella stessa direzione. La donna, che avrebbe agito con altri complici non identificati, lo avrebbe strangolato e ucciso dopo averlo immobilizzato con del nastro adesivo sul quale sono state trovate tracce di dna. Nell’abitazione dell’anziano, che fu trovato immobilizzato su una sedia dai vigili del fuoco, non c’era alcun segno di effrazione. «La circostanza – ha aggiunto il pm – rappresenta un’ulteriore conferma del fatto che è stato ucciso da qualcuno che aveva le chiavi». Il cadavere è stato scoperto dai vigili del fuoco, intervenuti dopo la segnalazione del figlio che non riusciva a contattarlo. Il caso sarebbe stato risolto scoprendo la sparizione dell’auto dell’anziano, che sarebbe stata rubata dalla donna, salvo poi cercare di disfarsene. L’auto era stata consegnata a un pregiudicato, che avrebbe dovuto demolirla ma che, invece, decise di tenerla per sé. «Tanto non avevo la patente - ha detto in aula l’uomo nel corso del processo -, se mi avessero fermato sarebbe stata comunque demolita». Giuseppe Sorce, accusato della ricettazione della vettura, ha confermato in aula di averla ricevuta, negando di conoscere la provenienza. Dopo la requisitoria ci sono state le arringhe dei difensori di parte civile, Vito Cangemi e Giuseppe Cacciatore, e del legale dell’imputato, Angelo Asaro. La Corte di assise presieduta da Wilma Angela Mazzara dovrebbe emettere la sentenza il 30 settembre dopo le eventuali repliche che potrebbero arrivare dal rappresentante dell’accusa o dai difensori.