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Bastonate e violenze su migranti, negano i nigeriani fermati ad Agrigento

PALERMO. Hanno risposto al gip negando ogni responsabilità i tre nigeriani, fermati ieri, su richiesta della Dda di Palermo, con le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla tratta e al traffico di esseri umani, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale e omicidio.

Ai tre africani, sbarcati in Italia il 16 aprile i pm Gery Ferrara e Claudio Camilleri hanno contestato le aggravanti della transnazionalità, della disponibilità di armi e l’aver agito con crudeltà e sevizie.

Godwin Nnodum, 42 anni, Bright Oghiator, 28, e Goodness Uzor, 24 - questi i nomi dei fermati - hanno ammesso di essere stati in Libia nella «casa bianca» descritta dalle vittime, in cui sarebbero avvenute torture e sevizie, prima della partenza dei migranti per le coste siciliane. Al giudice hanno detto però di non aver mai partecipato alle violenze.

Il fermo dovrebbe essere convalidato dal gip di Agrigento tra stasera e domani. Successivamente il fascicolo passerà per competenza a Palermo. La Procura chiederà di sentire i testimoni in incidente probatorio in modo da «cristallizzare» i racconti degli accusatori, alcuni dei quali vittime, che potrebbero lasciare l’Italia e non essere più reperibili.

Tra i testimoni che dovranno essere interrogati c'è anche il fratello di un migrante morto l’1 novembre del 2016 dopo tre giorni di agonia. Uno dei fermati lo avrebbe picchiato, mentre un trafficante libico lo teneva fermo a terra. «Solo dopo tre giorni di suppliche - ha raccontato il teste - ci fu concesso di poterlo seppellire». «Il giovane africano che ha ucciso mio fratello - ha messo a verbale dopo lo sbarco il 16 aprile scorso a Lampedusa - l’ho riconosciuto nel centro di accoglienza».

Un altro testimone ha raccontato che uno degli africani fermati gli «ha versato della benzina addosso e appiccato il fuoco». Storie di ferocia e violenza - altre 5 persone sarebbero state picchiate a morte - che dovranno ora essere ripetute davanti al gip. I migranti in partenza per l’Italia, minacciati con i kalashnikov, venivano sequestrati e costretti a stare all’interno di una ex base militare, a Sabratha, chiamata «Casa bianca». Solo dopo il pagamento di un riscatto potevano partire dalla Libia per raggiungere le coste siciliane.

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