AGRIGENTO. Aveva 26 attività commerciali e due fratelli. Ma oggi Angelo, 51 anni, 4 figli, testimone di giustizia da 15 anni, si ritrova a non avere più nè le attività commerciali, che ha dovuto chiudere, nè i due fratelli, che sono stati uccisi dalla mafia nel '99 e nel 2000, quando avevano rispettivamente 48 e 42 anni. Una storia dolorosa ma non isolata quella di Angelo, siciliano di un paese dell'agrigentino. Che è nel gruppo dei 13 testimoni di giustizia che la Regione Siciliana, dando seguito ad una legge approvata dall'Assemblea regionale, ha assunto nei giorni scorsi. Ma il paradosso è che lui in Sicilia non può rimettere piede per motivi di sicurezza.
Per denunciare situazioni come la sua e quelle di tanti altri testimoni di giustizia - persone che hanno scelto di non sottostare a racket, ricatti e soprusi e denunciare - il deputato Pd Davide Mattiello, componente della Commissione parlamentare Antimafia, dove coordina il gruppo di lavoro su testimoni, collaboratori e vittime di mafia, ha scritto oggi una lettera aperta al premier Matteo Renzi in cui chiede maggiore attenzione a queste persone, «perchè sentano di essere nel cuore delle preoccupazioni dello Stato e non un peso mal sopportato».
«Ero un imprenditore ricco, felice e fortunato - racconta Angelo - e con i miei fratelli ho fatto fortuna in Germania. Siamo rientrati in Italia negli anni Novanta e nella nostra terra, la Sicilia, abbiamo cercato di aprire una attività commerciale. Subito ci sono stati problemi: il nostro negozio avrebbe fatto concorrenza ad un altro il cui titolare era appoggiato dalla politica locale e sono passati anni prima che ci venisse concessa la licenza. Ma il peggio è arrivato quando uno dei miei fratelli ha avuto l'idea di aprire un'agenzia di onoranze funebri. Nel paese ce n'era un'altra senza autorizzazioni ma appoggiata dalla mafia provinciale. Io in quel periodo iniziai a denunciare la corruzione, il malaffare, le collusioni tra mafia e politica, il sistema della spartizione degli appalti. Prima mi furono uccisi i cani. Nel '99 e nel 2000 furono uccisi i miei fratelli. Il primo lasciò la moglie, il secondo moglie e tre figli». Da allora Angelo - che ha raccontato alle forze dell'ordine i retroscena dei due omicidi e con le sue denunce ha fatto dimettere un sindaco e ha portato all'arresto di noti mafiosi latitanti, alla scoperta di un traffico di armi e droga, di appalti pilotati e corruzione politica - ha lasciato la Sicilia, ha dovuto chiudere tutte le sue aziende e, con la sua famiglia, è entrato nel programma speciale di protezione. «Vuole la verità? Mi dispiace essere nato in Italia», dice.
Ma il suo non è un caso isolato: Luisa, che ha sposato un testimone in programma speciale di protezione in località segreta, da mesi aspetta di poter tornare qualche giorno a casa sua per rivedere i genitori, i nipoti. Tutto sembra ormai pronto: biglietti fatti, valigie preparate, famiglia in allerta, bambini pronti. All'ultimo una telefonata: tutto annullato, perchè le autorità competenti dicono di non essere in grado di garantire la sicurezza. Ma come? Per quanto? Non si sa.
A Michele, sposato e padre di due figli, la 'ndrangheta ha promesso la morte, tanto che in Calabria non può più metterci piede: divieto certificato dalle Autorità, e qualora debba proprio passarci, deve farlo con scorta, tutela e auto blindata. Ma a quest'uomo improvvisamente, e con due righe notificate dal comando dei carabinieri della località dove vive da qualche anno, gli viene revocata la scorta, fatta eccezione per la Calabria. «Così non va - scrive Mattiello - un testimone di giustizia riscattato ad una vita libera e dignitosa vale più di tante leggi contro mafia e corruzione». Sono meno di 100 i testimoni di giustizia in Italia, la maggior parte tra i 26 e i 60 anni. Nel programma di protezione del Viminale ci sono anche 253 loro familiari, di cui 103 hanno tra 0 e 18 anni.
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